LA LINGUA ITALIANA CHE SMINUISCE LA DONNA di E. Francica

3 Luglio 2018 | Redazione

di Eleonora Francica

Quando si affronta il tema della discriminazione femminile non basta parlare di statistiche, lotte e diritti fondamentali. La lunga storia che ha posto la donna subordinatamente all’uomo è infatti comprovata da ciò che è alla base dello stesso sistema sociale e di comunicazione: il linguaggio.

La lingua, la grammatica, i modi di esprimersi, sono tutte basi che vengono insegnate fin dalla tenera età: periodo della vita in cui la mente è particolarmente ricettiva e priva di ogni pregiudizio. Attraverso il linguaggio si insegnano ai bambini nomi, aggettivi, verbi e modi con cui si descrive il mondo esteriore: tali “segni” danno modo di formare e riempire di contenuti il pensiero, la personalità e la volontà del bambino che cresce, permettendogli di esprimersi agli altri nelle relazioni.

Per questo motivo, risulta fondamentale la scelta delle parole con cui la persona comunica se stessa e gli altri: il termine scelto nel nostro linguaggio verbale infatti rispecchia noi stessi e il valore che ci diamo, dando significato al nostro vivere quotidiano ed alle relazioni che intessiamo.

Durante la lunga formazione della lingua italiana si è tuttavia creata una disparità linguistica concettuale tra il genere maschile e quello femminile. Tale disparità è nata da un processo di creazione ideologica, di matrice maschile, utile a rispecchiare la posizione preminente raggiunta storicamente e socialmente dall’uomo rispetto la donna. Ciò ha fatto in modo che questa disuguaglianza indotta fosse espressa anche nel linguaggio verbale e nella comunicazione, oltre che nelle quotidiane dinamiche di potere.

L’esempio più lampante di questo tipo di linguaggio, che racchiude al suo interno molteplici significati discriminatori, si riscontra quando ci si riferisce ad una folla di donne a cui si aggiunge un solo uomo: la lingua italiana in tal caso insegna che bisogna indicare la folla come composta da “ragazzI”. Il motivo per cui ciò è concettualmente sbagliato non è certo perché, come direbbero in molti, vi sono più ragazze che ragazzi nella folla. L’enorme errore risiede nel fatto che, dicendo che vi è una folla di ragazzi, si elimina completamente quella che è la componente femminile, pur presente: si nega la donna, il suo valore, la sua stessa presenza. Questa spiegazione ad un primo approccio potrebbe risultare ostica, in quanto la società è abituata alla negazione della donna di fronte al genere maschile. Per questo motivo il fenomeno si può spiegare in maniera più immediata ribaltando i ruoli ed indicando dunque l’intera folla come composta da ragazzE: appare subito evidente che usando il termine “ragazzE” si intende un gruppo con componente unicamente femminile; quella maschile, eventualmente presente, verrebbe dunque completamente eliminata dalla definizione.

Si potrebbero fare ulteriori esempi di linguaggio discriminante. Basti pensare alla trasformazione che avviene quando si parla di un lavoro al femminile, aggiungendo il suffisso dispregiativo -essa.

Ciò dimostra che, fin dal linguaggio insegnato in periodo infantile, inizia quella disparità che accompagna la vita della donna ogni giorno: essa si insinua nei modi di fare e di essere; inconsciamente diviene un metro di disuguaglianza sociale, che viene usato talvolta involontariamente e crea come effetto una sottile ma costante quanto sminuente rappresentazione femminile, la quale nel tempo si stratifica nella coscienza sociale.

La ex Presidente della Camera Laura Boldrini ha condotto una campagna proprio in difesa del linguaggio declinato al femminile. “Il rispetto delle donne – ha detto – passa anche dal linguaggio” e di conseguenza anche l’agognata parità trova espressione per mezzo della lingua.

La Regione Emilia Romagna ha colto questa esigenza emanando la Legge Regionale del 27 giugno 2014, n.6, anche detta “Legge Quadro per la Parità e contro le discriminazioni di genere”. L’articolo n. 9 della legge di cui sopra, intitolato “Linguaggio di genere e lessico delle differenze”, riconosce come “la lingua rispecchia la cultura di una società e ne è una componente fortemente simbolica e che l’uso generalizzato del maschile nel linguaggio è un potente strumento di neutralizzazione dell’identità culturale e di genere che non permette un’adeguata rappresentazione di donne e uomini nella società”. Raccomanda inoltre al personale l’uso del femminile negli “atti amministrativi e nella corrispondenza, per le denominazioni di incarichi, funzioni politiche ed amministrative” se destinati o riferiti a donne.

In un contesto in cui la battaglia verso l’emancipazione della donna è anche culturale, non bisogna dunque stupirsi se il lavoro femminile viene ancor oggi spesso considerato inferiore rispetto a quello dell’uomo. Le donne da decenni lottano attivamente per avere più diritti in ambito lavorativo, ma poi sono le prime a definirlo in modo dispregiativo. Perché dire “il presidente” è scontato, mentre “la presidente” appare tanto innaturale? Perchè chiamarci “avvocato” invece di “avvocata”?

È giunto il momento di dimostrare che le donne valgono, ed il messaggio deve passare in primo luogo da come e da quanto potere ci si attribuisce attraverso il linguaggio con cui le donne si appellano.

La società italiana è cambiata e la lingua ne deve riflettere il mutamento. La forza delle parole non descrive solo il mondo in cui si vive, ma lo plasma e ne stabilisce i capisaldi: per questo la donna deve soffermarsi ed imparare a trarre vantaggio da quelli che a prima vista possono sembrare solo particolari trascurabili della lingua italiana.

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